AFRICA: RIPRESA IN RITIRATA?

Gentile connazionale,

Le auguro un buongiorno e auspico che questo articolo di Lucia Ragazzi, pubblicato sul sito dell’ISPI, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale il 25 marzo 2022, possa incontrare il Suo interesse. Buona lettura.

Fonte: https://www.ispionline.it/

2019 Douala: bonifica al porto di Douala dell’impresa italiana “Bonifacio srl”.

A gennaio 2022 la Banca Mondiale prospettava per l’Africa Subsahariana una situazione di cauta ripresa dopo la pesante crisi economica imposta dalla pandemia, in un contesto comunque segnato da incognite e vulnerabilità. Tra i fattori di rischio principali si identificavano la limitata copertura vaccinale, la bassa sostenibilità del debito pubblico e l’impatto di fattori preesistenti, in particolare l’aumento dei prezzi del cibo, l’esposizione al cambiamento climatico, violenze e conflitti interni. Non vi era naturalmente menzione a un possibile scenario di guerra in Europa: una realtà il cui impatto, a un mese dal suo inizio, si sta riverberando anche sulle economie africane nella delicata fase di ripresa post-pandemica. In una dichiarazione del 10 marzo, la direttrice operativa del Fondo Monetario Internazionale (FMI) Kristalina Georgieva ha evidenziato come l’Africa sia particolarmente esposta agli impatti della crisi per via di quattro dinamiche principali: aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, aumento dei prezzi del carburante, minori entrate dal turismo e potenzialmente maggiori difficoltà di accesso ai mercati internazionali dei capitali.

Vulnerabilità stratificate per i Paesi più esposti

A gennaio 2022, in un’Africa impegnata a gestire le conseguenze della crisi economica del 2020-21, le proiezioni di crescita prospettavano una media del 3,7% per il biennio 2022-23, con un Pil pro-capite destinato a rimanere inferiore alla media pre-pandemia almeno fino al 2023. Livelli di crescita insufficienti a compensare le perdite subite in termini di aumento della povertà estrema, che ha interessato almeno 30 milioni di persone in più nella sola Africa subsahariana, con un effetto a catena sull’aumento di diseguaglianze, tensioni sociali e instabilità politica.

In questa situazione, l’aumento dei prezzi dei prodotti agroalimentari e dei combustibili crea pressione aggiuntiva sui nuclei familiari. Ucraina e Russia rappresentano il 27% del commercio mondiale di grano e l’Africa, importatore netto di prodotti cerealicoli, è profondamente dipendente da questi due Paesi per il suo approvvigionamento alimentare. Tra il 2018 e il 2020, il 32% delle importazioni africane di grano proveniva dalla Russia e il 12% dall’Ucraina. Questa dipendenza risulta particolarmente esacerbata per alcuni Paesi: sono 25 i Paesi africani che importano più di un terzo del loro grano da Russia e Ucraina, 15 quelli che ne importano più della metà. La situazione è particolarmente accentuata in Nord Africa e in particolare nel caso dell’Egitto, principale importatore di grano al mondo, che ne acquista da Russia e Ucraina quasi l’85%. Ma la situazione diffonde timori di “emergenza pane” in tutti gli Stati della regione.

L’aumento del prezzo del grano, oltre il 50% nell’ultimo mese, si innesta su una preesistente dinamica inflattiva che aveva visto il prezzo dei beni alimentari aumentare nel 2021 già del 23,1%, il ritmo più veloce da più di un decennio, con gravi impatti sulla sicurezza alimentare nel continente: secondo il FMI, il numero di persone malnutrite nella sola Africa subsahariana è aumentato del 20%, raggiungendo 264 milioni di individui. L’impatto di questi ulteriori rincari è destinato ad essere più forte in una regione in cui i beni alimentari rappresentano circa il 40% della spesa dei nuclei familiari.

Preoccupano anche le difficoltà di approvvigionamento delle derrate disponibili a causa delle operazioni militari e le difficoltà dei traffici nel Mar Nero, a fronte di una scarsa capacità africana di rimpiazzare l’import russo e ucraino con produzione infracontinentale, viste le carenze nelle capacità di stoccaggio e trasporto. Una situazione complicata anche dall’aumento del prezzo dei fertilizzanti, di cui la Russia è un esportatore chiave per molti Paesi africani, laddove una loro minore accessibilità risulterebbe in una produzione agricola a sua volta ridotta nella stagione a venire, mentre si ripetono fenomeni di siccità che hanno influito sull’aumento del prezzo del grano già nel 2021.

Luci e ombre sulle rotte della diversificazione energetica

Il prezzo del petrolio, a sua volta, è aumentato di circa il 30% dall’inizio del conflitto. Il fattore dei combustibili sembra destinato a giocare un ruolo duplice sulle economie africane in questo contingente. L’aumento dei prezzi avrà un effetto positivo per i Paesi esportatori, che potranno così bilanciare l’aumento del prezzo dei prodotti alimentari. Tuttavia, solo 11 Paesi sono esportatori di energia: per quelli importatori,  i rincari sul fronte alimentare contribuiranno a peggiorare la pressione sui consumatori.

La strategia europea di ridurre la dipendenza dal gas russo tramite la diversificazione delle importazioni potrebbe essere una buona notizia per i Paesi africani fornitori di energia. Il piano europeo REPowerEU propone di incrementare l’afflusso di gas naturale liquefatto (GNL) e forniture tramite gasdotti, oltre che accelerare sul fronte delle energie rinnovabili e gas più sostenibili. Con riserve di gas africano stimate intorno ai 17 bilioni di metri cubi, l’attenzione verso i Paesi a sud del Mediterraneo è quindi alta. Il piano propone di incrementare l’afflusso attraverso gasdotti già esistenti (tra cui quello dall’Algeria, attualmente il quinto fornitore dell’Europa con il 12,6% delle importazioni) e di aumentare l’afflusso di GNL da, tra gli altri, Egitto e Africa Occidentale. Mentre discussioni sono in corso con i partner più consolidati, anche nuovi potenziali collaboratori hanno espresso il loro interesse: è il caso della Tanzania, la cui presidente Samia Suluhu Hassan ha dichiarato la disponibilità a sfruttare le riserve nazionali di gas, seste nel continente, verso mercati europei.

Vi sono però dubbi sul fatto che queste collaborazioni possano essere implementate in tempi breviLimiti infrastrutturali per l’aumento dell’estrazione e per il trasporto riducono la capacità di questi Paesi di essere un bacino immediatamente fruibile per l’Europa. È ad esempio ancora il caso della Tanzania, che necessita ancora di infrastrutture per la liquefazione del gas. La Nigeria è impegnata con il Niger e l’Algeria nei lavori per la realizzazione di un gasdotto transahariano che collegherebbe il gas nigeriano e nigerino all’Europa tramite l’Algeria: un progetto ambizioso, che potrebbe arrivare a una portata di 30 miliardi di metri cubi all’anno, ma che richiederà ampi finanziamenti e lunghi tempi di realizzazione. Lo sviluppo infrastrutturale non è l’unico limite. L’Egitto sembra orientato a prediligere contratti a lungo termine con la Cina, mentre la Libia presenta un panorama politico troppo instabile per diventare un punto di riferimento. I rischi legati all’insicurezza sono presenti anche nel caso del Mozambico, alle prese con una situazione di instabilità dell’area di Cabo Delgado, ricca di gas ma teatro di un’insorgenza jihadista. Vi è dunque il rischio che colli di bottiglia rallentino le potenzialità dei Paesi africani di giocare un ruolo in questa fase di riconversione dell’import energetico europeo, che nel frattempo prosegue a ritmi serrati per andare incontro all’obiettivo di ridurre di due terzi (ovvero di circa 100 miliardi di metri cubi) la dipendenza dal gas russo entro la fine dell’anno, per ridurlo totalmente nel 2023.

Quali priorità, a che prezzo?

A metà febbraio, nell’ambito del summit Unione Europea-Unione Africana di Bruxellesera stato annunciato un ambizioso piano di investimenti per 150 miliardi di euro nell’ambito dell’iniziativa Global Gateway. Solo una settimana dopo, il precipitare della situazione in Ucraina aveva imposto l’inevitabile ricalibratura delle priorità europee e uno slittamento dell’attenzione verso progetti energetici in Europa. Uno slittamento ai danni di piani di transizione energetica in Africa rallenterebbe la collaborazione tra i due continenti, dando adito a uno scetticismo già espresso da parte africana sulla concretezza delle iniziative proposte dai partner europei, in assenza di una roadmap concreta per definire la messa a disposizione dei fondi necessari.

In questo contesto si teme che la guerra in Europa ricalibrerà le priorità europee e globali non solo sul piano energetico ma anche su quello degli aiuti allo sviluppoL’UE ha già dimostrato un impegno militare senza precedenti, con la decisione storica del 27 febbraio di allocare 500 milioni di euro per l’invio di armi in Ucraina. Oltre alle spese militari, sugli Stati Membri graveranno anche quelle di accoglienza ai rifugiati ucraini, le spese di ricostruzione, nonché le conseguenze dell’inflazione, mentre i fondi allocati agli aiuti allo sviluppo diminuiscono in molti Paesi, tra cui l’Italia. Una “ri-prioritizzazione” dei fondi disponibili, tuttavia, potrebbe aggravare crisi umanitarie presistenti. David Beasley, direttore esecutivo del World Food Programme (WFP), ha dichiarato che la situazione in Russia e Ucraina, zona da cui il WFP prende la metà delle sue riserve, avrà un profondo impatto sulla loro operatività nella distribuzione di cibo in contesti di crisi umanitaria.

In questo contesto, l’aumento del prezzo del cibo accentua timori di proteste popolari. Della correlazione tra aumento dei prezzi alimentari e destabilizzazioni politiche si è avuto prova ripetutamente negli ultimi anni: dal caso delle primavere arabe del 2011 al rovesciamento del regime di Omar al-Bashir in Sudan nel 2019, dopo mesi di proteste popolari innescate dalla carenza di pane e carburante.  

Lo slittamento delle priorità internazionali potrebbe produrre quindi  un effetto domino aumentando i livelli di instabilità nelle zone di crisi in Africa”.

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