Archivi del mese: aprile 2020

75° ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE. IL MESSAGGIO DEL PRESIDENTE MATTARELLA

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Gentile Concittadina, Gentile Concittadino,

nel trasmetterLe le parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del 75° Anniversario della Liberazione, il Vice Consolato Onorario d’Italia Le augura una sentita commemorazione della Festa della Repubblica: Viva l’Italia! Viva la Liberazione! Viva la Repubblica!

«Nella primavera del 1945 l’Europa vide la sconfitta del nazifascismo e dei suoi seguaci.

L’idea di potenza, di superiorità di razza, di sopraffazione di un popolo contro l’altro, all’origine della seconda guerra mondiale, lasciò il posto a quella di cooperazione nella libertà e nella pace e, in coerenza con quella scelta, pochi anni dopo è nata la Comunità Europea.

Oggi celebriamo il settantacinquesimo anniversario della Liberazione, data fondatrice della nostra esperienza democratica di cui la Repubblica è presidio con la sua Costituzione.

La pandemia del virus che ha colpito i popoli del mondo ci costringe a celebrare questa giornata nelle nostre case.

Ai familiari di ciascuna delle vittime vanno i sentimenti di partecipazione al lutto da parte della nostra comunità nazionale, così come va espressa riconoscenza a tutti coloro che si trovano in prima linea per combattere il virus e a quanti permettono il funzionamento di filiere produttive e di servizi essenziali.

Manifestano uno spirito che onora la Repubblica e rafforza la solidarietà della nostra convivenza, nel segno della continuità dei valori che hanno reso straordinario il nostro Paese.

In questo giorno richiamiamo con determinazione questi valori. Fare memoria della Resistenza, della lotta di Liberazione, di quelle pagine decisive della nostra storia, dei coraggiosi che vi ebbero parte, resistendo all’oppressione, rischiando per la libertà di tutti, significa ribadire i valori di libertà, giustizia e coesione sociale, che ne furono alla base, sentendoci uniti intorno al Tricolore.

Nasceva allora una nuova Italia e il nostro popolo, a partire da una condizione di grande sofferenza, unito intorno a valori morali e civili di portata universale, ha saputo costruire il proprio futuro.

Con tenacia, con spirito di sacrificio e senso di appartenenza alla comunità nazionale, l’Italia ha superato ostacoli che sembravano insormontabili.

Le energie positive che seppero sprigionarsi in quel momento portarono alla rinascita. Il popolo italiano riprese in mano il proprio destino. La ricostruzione cambiò il volto del nostro Paese e lo rese moderno, più giusto, conquistando rispetto e considerazione nel contesto internazionale, dotandosi di antidoti contro il rigenerarsi di quei germi di odio e follia che avevano nutrito la scellerata avventura nazifascista.

Nella nostra democrazia la dialettica e il contrasto delle opinioni non hanno mai, nei decenni, incrinato l’esigenza di unità del popolo italiano, divenuta essa stessa prerogativa della nostra identità. E dunque avvertiamo la consapevolezza di un comune destino come una riserva etica, di straordinario valore civile e istituzionale. L’abbiamo vista manifestarsi, nel sentirsi responsabili verso la propria comunità, ogni volta che eventi dolorosi hanno messo alla prova la capacità e la volontà di ripresa dei nostri territori.

Cari concittadini, la nostra peculiarità nel saper superare le avversità deve accompagnarci anche oggi, nella dura prova di una malattia che ha spezzato tante vite. Per dedicarci al recupero di una piena sicurezza per la salute e a una azione di rilancio e di rinnovata capacità di progettazione economica e sociale. A questa impresa siamo chiamati tutti, istituzioni e cittadini, forze politiche, forze sociali ed economiche, professionisti, intellettuali, operatori di ogni settore.

Insieme possiamo farcela e lo stiamo dimostrando.

Viva l’Italia! Viva la Liberazione! Viva la Repubblica!»

Roma, 25/04/2020

 

Altare della Patria

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Il Presidente Sergio Mattarella in occasione della deposizione di una corona d’alloro sulla Tomba del Milite Ignoto, nella ricorrenza del 75° anniversario della Liberazione.

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RIPUBBLICAZIONE DELL’ORDINANZA DEL 28 MARZO 2020 PER IL RIENTRO

 

Gentile Connazionale,

in seguito alla riproposizione della domanda sulle norme che regolano il  RIENTRO IN ITALIA DEI CONNAZIONALI, si ripubblica l’ordinanza diramata dal Ministero della Salute in concerto con quello dei Transporti e delle Infrastrutture il 28 marzo 2020. L’ordinanza è tutt’ora in vigore.

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L’ordinanza dispone che chiunque arrivi in Italia su aerei, navi, treni o veicoli «è tenuto a consegnare al vettore all’atto dell’imbarco una dichiarazione che specifichi, fra l’altro, i motivi del viaggio e l’indirizzo completo dell’abitazione dove sarà svolto l’isolamento fiduciario».

Il modello dell’autodichiarazione e’ scaricabile a questo LINK. 

Il testo completo dell’ordinanza puo’ essere scaricato cliccando questo LINK.

Si riportano per comodita’ di lettura alcune FAQ relative alle le nuove disposizioni:

A. Quali regole valgono dal 28 marzo per gli ingressi in Italia dall’estero?

1. Il vettore è responsabilizzato: l’autocertificazione sui motivi del viaggio (link al modulo) va consegnata anche all’imbarco e deve contenere i motivi del viaggio in modo dettagliato (salute, lavoro, necessità assoluta), l’indicazione del luogo dove si trascorreranno i successivi 14 giorni di isolamento, il mezzo proprio o privato con cui tale luogo sarà raggiunto e un recapito telefonico anche mobile. Per “necessità assoluta” si intendono le ragioni indicate nella faq già pubblicata nel sito del Ministero Affari Esteri e Cooperazione Internazionale.

2. Chi arriva dall’estero non può prendere mezzi di trasporto pubblici, ma solo mezzi privati (quindi o qualcuno viene a prenderlo all’aeroporto, porto o stazione oppure l’interessato noleggia una macchina o, nei limiti in cui è consentito, prende un taxi o un’auto a noleggio con conducente). “Per i transiti in aeroporto vedere faq specifica”.

3. La QUARANTENA DEVE ESSERE FATTA DA CHIUNQUE ENTRI IN ITALIA. Quindi anche da chi entra con mezzo privato. Chi entra in Italia per lavoro può ancora utilizzare la possibilità di rimandare l’inizio della quarantena di 72 ore (prolungabili per altre 48), nei limiti in cui ciò sia assolutamente necessario.

4. Tutti quelli che entrano dall’estero, anche con mezzi privati, devono avvisare l’Azienda sanitaria locale competente per territorio.

5.  L’isolamento può essere trascorso anche in un luogo diverso dalla propria abitazione, scelto dall’interessato.

6 . Se qualcuno, arrivando in Italia, non ha luogo dove passare quarantena o non riesce a raggiungerlo (non possono venirlo a prendere, non trova stanza d’albergo che lo accolga…), allora deve trascorrere il periodo di isolamento in luogo deciso dalla Protezione civile, con spese a carico dell’interessato.

7. Sono esclusi da queste regole: lavoratori transfrontalieri, personale sanitario, equipaggi di trasporto passeggeri e merci.

B. Sono un cittadino/a italiano/a all’estero o uno straniero residente in Italia, posso rientrare in Italia?

Sì, se il rientro è un’urgenza assoluta. È quindi, per esempio, consentito il rientro dei cittadini italiani o degli stranieri residenti in Italia che si trovano all’estero in via temporanea (per turismo, affari o altro). E’ ugualmente consentito il rientro in Italia dei cittadini italiani costretti a lasciare definitivamente il Paese estero dove lavoravano o studiavano (perché, ad esempio, sono stati licenziati, hanno perso la casa, il loro corso di studi è stato definitivamente interrotto).

C. Sono una persona residente all’estero, per raggiungere il Paese in cui vivo abitualmente devo passare per l’Italia. Come mi devo comportare?

Il transito attraverso l’Italia da un Paese estero ad un altro Paese estero, finalizzato a raggiungere – il più rapidamente possibile e senza soste intermedie non strettamente necessarie – la propria abitazione, è consentito, se vi sono ragioni di lavoro, salute o assoluta urgenza. Ad esempio:

. è consentito il transito aeroportuale (ad esempio viaggio da Caracas a Francoforte con scalo a Fiumicino), purché non si esca dall’area aeroportuale;
. è consentito ai croceristi che sbarcano in Italia per fine crociera di tornare nel proprio Paese (con spese a carico dell’armatore);
. è consentito imbarcare il proprio mezzo privato su un traghetto (ad esempio dalla Tunisia o dalla Grecia per l’Italia) e proseguire verso la propria abitazione sullo stesso mezzo privato (ad esempio in Olanda o in Germania).

All’imbarco su aereo/nave diretti in Italia è necessario compilare questa autodichiarazione (link modulo Esteri) indicando chiaramente che si tratta di un transito per raggiungere la propria abitazione sita in un Paese diverso dall’Italia. Durante il tragitto in Italia è necessario esibire alle forze di polizia che faranno i controlli questa autodichiarazione (link modulo Interno), indicando chiaramente la stessa ragione. Se insorgono sintomi di Covid-19, è necessario avvisare immediatamente l’autorità sanitaria competente per territorio tramite il numero di telefono appositamente dedicato ed attendere istruzioni. E’ inoltre importante che, prima di intraprendere il viaggio, ci si informi sulle restrizioni agli spostamenti introdotte non solo dall’Italia, ma anche dagli altri Paesi di inizio, di transito e di destinazione. Durante il transito per l’Italia si raccomanda inoltre di mantenersi in contatto con la rappresentanza diplomatica del proprio Paese competente per l’Italia.

D. Sono in rientro con un volo proveniente dall’estero. Posso prendere un altro volo per altra destinazione nazionale o internazionale?

Sì, il transito in aeroporto è consentito, purché non si esca dall’area aeroportuale. Lo spostamento verso la destinazione finale deve essere sempre giustificato da esigenze di lavoro, salute o assoluta urgenza, come tutti gli altri spostamenti.

E.  Sono un cittadino straniero e mi trovo attualmente in Italia, posso fare rientro nel mio Paese?

Sì, se il rientro è un’urgenza assoluta, alle medesime condizioni alle quali è sottoposto il rientro dei cittadini italiani dall’estero (v. faq). La temporanea sospensione dell’attività lavorativa o la sua continuazione in modalità di “lavoro agile” non consentono invece spostamenti. Per l’autocertificazione dei motivi degli spostamenti necessari a raggiungere la frontiera si può usare il modulo pubblicato nel sito del Ministero dell’interno.
Si raccomanda di verificare prima della partenza le misure previste nel Paese di destinazione per contrastare la diffusione del virus.
Si consiglia inoltre di prendere contatto con l’ambasciata del proprio Paese in Italia.

F. Sono in rientro dall’estero. Posso chiedere ad una persona di venirmi a prendere in macchina all’aeroporto, alla stazione ferroviaria o al porto di arrivo?

Sì, ma è consentito ad una sola persona convivente o coabitante nello stesso domicilio del trasportato, possibilmente munita di dispositivo di protezione. Lo spostamento in questione rientra tra le fattispecie di “assoluta urgenza”, che dovrà essere autocertificato con il modulo messo a disposizione dal Ministero dell’interno, compilato in tutte le sue parti, indicando, in particolare, il tragitto percorso e il domicilio ove la persona si reca.
Resta fermo l’obbligo di comunicare immediatamente il proprio ingresso in Italia al Dipartimento di prevenzione, per la sottoposizione a sorveglianza sanitaria e a isolamento fiduciario, nonché l’obbligo di segnalare con tempestività l’eventuale insorgenza di sintomi da COVID-19 all’autorità sanitaria.


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INFORMARSI, REGISTRARSI, PROTEGGERSI

Si raccomanda  ai cittadini e alle cittadine italiane temporaneamente presenti  in Camerun per motivi di turismo; lavoro e affari; attività umanitarie, di cooperazione,  e giornalistiche; sport; scuola, università e ricerca,  di:

1. INFORMARSI sulla sicurezza consultando regolarmente il sito http://www.viaggiaresicuri.it .

2.  REGISTRARSI sul sito www.dovesiamonelmondo.it

Registrarsi è IMPORTANTE, perché consente all’Unità di Crisi di pianificare un intervento con maggiore rapidità e precisione.

3. SCRIVERE all’Ambasciata in Yaoundé per un eventuale rimpatrio consolare.yaounde@esteri.it, inviando una scansione del passaporto  e mettendo in  copia: douala.onorario@esteri.it; consolato.douala@email.it.

4. CONSULTARE sovente il sito dell’Ambasciata: www.ambyaounde.esteri.it.

“Viaggiare Sicuri” e “Dove siamo nel Mondo” sono i servizi dedicati ai connazionali in viaggio, che afferiscono all’Unità di Crisi della Farnesina, struttura del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Il suo compito: assistere gli italiani e le italiane e tutelare gli interessi italiani in situazioni di crisi all’estero.

La nuona App “UNITÀ DI CRISI” per dispositivi mobili

L’Unità di Crisi ha sviluppato una nuova APP gratuita per smartphone e tablet che integra tutti i servizi di ViaggiareSicuri.it e di DovesiamonelMondo.it.

La nuova APP si avvale di avanzate risorse di mappatura globale ed offre agli utenti in viaggio all’estero la possibilità di geolocalizzarsi, per ricevere notifiche durante i transiti nelle aree più a rischio, aggiornamenti in tempo reale su situazioni di pericolo, e confermare la propria incolumità a seguito di eventi critici, ovunque nel mondo questi si verifichino.

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LAVORO E QUARTA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE: ALCUNE RIFLESSIONI DELL’ECONOMISTA STEFANO ZAMAGNI

Gentile Connazionale, Gentile utente,
ieri mi sono “imbattutata” in questa intervista che ho deciso di convidere con voi.  L’intervista, a cura di Tito Menzani, è diretta al Prof. Stefano Zamagni che riflette sulle caratteristiche e sulle conseguenza del lavoro e della rivoluzione industriale 4.0. Buona lettura.
Stefano Zamagni

 

Stefano Zamagni insegna Economia politica all’Università di Bologna ed è adjunct professor of International political economy alla Johns Hopkins University di Bologna. Tra i più conosciuti economisti italiani, ex presidente dell’Agenzia per il terzo settore, è stato di recente nominato presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali. È apprezzato a livello internazionale per i suoi studi in materia di economia civile e sociale.

È vero che siamo entrati nella stagione della quarta rivoluzione industriale?

Sì, è ormai generalmente acquisito che quello attuale è un vero e proprio passaggio d’epoca e non una naturale evoluzione di tendenze già in atto durante la lunga fase della società industriale. La quarta rivoluzione industriale si ripercuote sulla nostra condizione di vita e incide sull’articolazione delle nostre società. Ed è pure ampiamente noto che all’origine dell’attuale transizione c’è anche il fenomeno della globalizzazione. Ma mentre intorno a quest’ultimo la letteratura è già folta, non altrettanto può dirsi in riferimento alla quarta rivoluzione industriale, che pure ha portata epocale. Ovvero, non sappiamo ancora come le nuove tecnologie e la cultura che le governa modificheranno l’essenza del capitalismo degli anni prossimi.

Che effetti avrà sulla società e sull’economia?

È maldestramente riduttivo identificare la quarta rivoluzione industriale unicamente come un nuovo paradigma tecnologico. Insistere solamente su tale dimensione non permette di cogliere gli elementi di rottura sui fronti sociale e culturale che questo fenomeno emergente sta evidenziando. Il che non consente di impostare linee di intervento all’altezza delle sfide odierne. Personalmente non mi riconosco né nella posizione dei cosiddetti tecno-pessimisti, né in quella degli esaltatori acritici delle nuove tecnologie. Se hanno torto i laudatori della quarta rivoluzione industriale, non hanno ragione i suoi denigratori. Considero, infatti, l’attuale traiettoria tecno-scientifica come qualcosa in sé positivo, e comunque inarrestabile, che però va governata con saggezza, cioè con ragionevolezza, e non solo con competenza, cioè con razionalità.

Qual è il nuovo paradigma tecnologico della quarta rivoluzione industriale?

Il riferimento principale è alle cosiddette «tecnologie convergenti». Sono quelle che risultano dalla combinazione sinergica di nanotecnologie, biotecnologie, tecnologie dell’informazione, scienze cognitive, tanto che sono chiamate anche con l’acronimo Nbic. L’espressione tecnologie convergenti discende proprio dalla circostanza che nella quarta rivoluzione industriale non c’è stata una nuova scoperta o un’innovazione di rottura, come invece è stato il caso in tutte e tre le rivoluzioni precedenti.

E le tecnologie convergenti hanno già mostrato le proprie potenzialità?

La promessa di un potenziamento, e quindi di una trasformazione, sia dell’uomo sia della società, che le tecnologie convergenti del gruppo Nbic oggi fanno dà conto della straordinaria attenzione che la tecnoscienza va ricevendo in una pluralità di ambiti. Il fine perseguito non è solamente il potenziamento della mente, e neppure solamente l’aumento della capacità diagnostica e terapeutica nei confronti di tutta una gamma di patologie, e neppure ancora il miglioramento dei modi di controllo e manipolazione delle informazioni. Ciò verso cui si vuole tendere è l’artificializzazione dell’uomo e, al tempo stesso, l’antropomorfizzazione della macchina. È a Julien Huxley che si deve l’invenzione della parola transumanesimo, per descrivere un mondo futuro in cui avremo una continua ibridazione dell’umano. Come movimento globale, il transumanesimo si è sviluppato nella Silicon Valley, grazie agli interventi di Google e Apple il cui scopo è costruire un «uomo aumentato» nelle sue capacità. È su questo che è oggi urgente sollevare il velo del silenzio, aprendo un dibattito di alto profilo.

A quale rischio ci troviamo di fronte?

Sono due le concezioni di uomo che si vanno confrontando: quella dell’uomo-persona e quella dell’uomo-macchina. Quest’ultima sta guadagnando terreno sulla prima. Il che spiega, tra l’altro, perché l’ideale dell’uomo-macchina stia determinando oggi una vera e propria emergenza educativa: la formazione (o istruzione) ha preso il posto dell’educazione. Spesso istruzione e educazione sono usati come sinonimi ma non sono la stessa cosa. Istruire significa immettere nozioni nella testa dell’allievo. Viceversa, educare, dal latino educere, significare tirare fuori, far emergere. L’uomo-macchina chiede istruzione; non gli serve l’educazione. È la teoria dell’equilibrazione, secondo la quale il motore dello sviluppo mentale del bambino e del giovane è un processo di adattamento cognitivo a impulsi provenienti dall’esterno. Nulla di più meccanicistico! Un segnale inquietante di tale riduzionismo è la progressiva scomparsa della figura dell’educatore. Il maestro è ridotto a un facilitatore o a un mediatore che non deve educare, ma solamente favorire il processo di autoapprendimento, perché sembra avere valore solo ciò che si è fatto da sé. È questa una delle più devastanti conseguenze dell’individualismo libertario. Non solo, ma l’antiautoritarismo declamato, secondo cui non bisogna condizionare né guidare le presunte scelte «libere» del soggetto, nasconde in realtà una visione ben più autoritaria: solo l’esperto di autoformazione può parlare di scuola. Ma i metodi didattici non danno conoscenza, né consentono di misurarla in modo oggettivo, come si tende a credere.

Che cos’è l’industria 4.0 e perché se ne parla tanto?

Si tratta di una espressione coniata dall’azienda tedesca Bosch e presentata per la prima volta alla fiera di Hannover nel 2011. Di fatto è una delle più rilevanti novità associate alla quarta rivoluzione industriale, ovvero una nuova modalità organizzativa della produzione, manifatturiera e non. Intelligenza artificiale, robotica, genomica, informatica, tra loro collegate secondo una relazione moltiplicativa, stanno letteralmente rivoluzionando sia il modo di produzione sia il senso del lavoro umano. La fusione tra mondo reale degli impianti e mondo virtuale dell’informazione, tra mondo fisico degli uomini e mondo digitale del dato ha fatto nascere un sistema misto cyber-fisico che mira a sciogliere quei nodi che i modelli del passato non erano stati in grado di realizzare: come ridurre gli sprechi, raccogliere informazioni dal processo lavorativo e rielaborarle in tempo reale, anticipare errori di progettazione per mezzo della virtualizzazione della fabbrica, valorizzare appieno la creatività del lavoratore, incorporare le specifiche richieste del cliente in tutte le fasi del processo di produzione. Chiaramente, affinché questa Industria 4.0 possa generare i risultati attesi è indispensabile che si realizzi una radicale innovazione organizzativa, abbandonando l’obsoleto modello ford-taylorista basato sulla gerarchia e su una spinta specializzazione delle mansioni.

Cosa occorre fare?

A poco serve acquisire le nuove macchine e attivare le piattaforme tecnologiche se non si realizza il change management che sappia valorizzare i comportamenti cooperativi e sviluppare la cultura della partecipazione tra tutti coloro che operano nell’impresa. Ecco perché, ormai da qualche tempo, si va parlando dell’urgenza di inserire nelle imprese nuove figure professionali quali il digital innovation officer, responsabile dell’innovazione digitale, il technology innovation manager, facilitatore dell’innovazione, il data protection officer, responsabile della protezione dati e della privacy, il coding expert, che insegna come ordinare alla macchina di svolgere un determinato compito attraverso il linguaggio di programmazione, e altre ancora. Si tratta di professioni indispensabili per gestire al meglio i mutamenti imposti dall’uso di big data, di internet of things, e nel prossimo futuro di internet of the beings, che rappresenta la terza fase della vita della rete. È proprio la mancanza di tali figure a dare conto delle difficoltà del tempo presente. Siccome il lavoro non è più un posto, ma un flusso, un’attività che può essere condotta in luoghi diversi, creatività e innovatività vengono richieste a tutti i lavoratori e non solo a chi svolge ruoli dirigenziali. La multinazionale americana AT&T ha introdotto un sistema di «raccolta delle idee» entro l’azienda del seguente tipo: i lavoratori raggruppati in squadre presentano ai dirigenti il proprio progetto come se fossero davanti a un venture capitalist che deve decidere se finanziarlo o meno. I lavoratori sono così indotti ad assumersi una parte il rischio e ciò che fa sorgere problemi per quanto concerne gli assetti sia di governance sia proprietari.

Ci può affrescare qualche scenario concreto di questo futuro?

Certamente, basti pensare a quel che potrà accadere a breve, con l’impiego su vasta scala, delle stampanti 3D, applicate non solo sul fronte della produzione, ma esteso a quello del consumo. Come noto, il modello della stampante 3D è autoreplicante e libero. Potenzialmente, una stampante 3D potrebbe permettere alle imprese di produrre lotti di una sola unità di prodotto. Il che significa che essa può riprodurre le sue stesse parti (quelle che sono di plastica) e poiché gli schemi sono disponibili a tutti con pochi clic, ciascuno può col tempo apportare i suoi miglioramenti e condividerli con altri. Il modo di concepire e di produrre della stampante è all’opposto dei gesti attenti dell’artigiano. Tale modo procede per fabbricazione additiva: il modello in tre dimensioni è scomposto in strati orizzontali molto sottili, così che l’oggetto è costruito partendo dalla base fino alla cima, come una sovrapposizione di lamelle. Il lavoro non incontra più la resistenza del legno o della pietra. L’inventore della stampante 3D, Adrian Bowyer, aveva in animo di realizzare con la sua macchina ciò che Karl Marx credeva di poter compiere con una rivoluzione politica. Scrisse che la stampante 3D avrebbe permesso una appropriazione rivoluzionaria dei mezzi di produzione da parte del proletariato, perché il consumatore sarebbe potuto diventare anche produttore. Il neologismo che racconta tutto ciò è prosumer. E Jeremy Rifkin ha profetizzato che in ogni quartiere si troveranno stampanti 3D più performanti di quelle che un singolo cittadino potrebbe acquistare; e in questi luoghi i vicini di casa potranno aiutarsi per fabbricarsi tutto quanto serve alla vita domestica secondo i loro progetti. Naturalmente, il futuro prossimo si incaricherà di mostrare se si tratta di qualcosa di reale oppure di semplice utopia.

Entriamo più nel merito della questione del lavoro: ci saranno maggiori opportunità occupazionali o le macchine rimpiazzeranno sempre più l’uomo?

I tecno-ottimisti ad oltranza basano la loro visione circa gli effetti della rivoluzione digitale sulla celebre profezia di John Maynard Keynes, che diceva che le macchine avrebbero liberato gli uomini dal lavoro, per cui l’umanità avrebbe potuto dedicarsi alla coltivazione delle arti e del pensiero filosofico. Non poteva certo immaginarsi che dopo la seconda, sarebbero scoppiate due altre rivoluzioni industriali, la cui cifra è la marcata accelerazione con cui si realizza il mutamento tecnologico: da intergenerazionale a intragenerazionale. È questa iperaccelerazione che non consente una metabolizzazione del nuovo: l’avanzamento tecnico-scientifico corre più velocemente della riflessione etica. Secondariamente, il meccanismo della distruzione creatrice, colpisce più pesantemente quelle economie la cui forza lavoro è meno capace di recepire il nuovo. E infatti sono i paesi emergenti quelli che oggi più risentono dei rischi occupazionali associati alla nuova ondata di automazione. D’altro canto, i tecno-pessimisti pensano che il lavoro diventerà sempre meno importante e sempre più lavoratori saranno rimpiazzati dalle macchine. Un recente rapporto del centro di ricerca britannico Nesta pare confermare questo pessimismo quando chiarisce che non bastano più le skills specialistiche ad assicurare l’occupabilità. Quel che in più la nuova traiettoria tecnologica richiede sono abilità di tipo relazionale, quali empatia, propensione al lavoro di squadra, autonomia.

E lei come la pensa?

Sono dell’avviso che se il digitale cambia la relazione tra conoscenza e lavoro, mettendo in discussione i posti di lavoro tradizionali e se è vero che la tecnologia ha sempre distrutto e creato lavoro, l’esito non è una società senza lavoro, ma una trasformazione certamente radicale dello stesso. Si consideri, infatti, che il meccanismo di sostituzione che ha funzionato, più o meno bene a seconda dei casi durante la prima e seconda rivoluzione industriale, oggi con l’intelligenza artificiale non funziona più. Allora le macchine sostituivano il lavoro fisico dell’uomo spingendo verso mestieri di maggiore valore cognitivo; ora l’intelligenza artificiale copre tutto lo spettro cognitivo. Ora, se è vero che non si può trascurare l’effetto spiazzamento nei confronti del lavoro che automazione e intelligenza artificiale vanno provocando, è del pari vero che, se si volesse, potrebbero essere attivate forze che spingono nella direzione opposta, quella dell’aumento della domanda di lavoro. Penso all’effetto produttività: diminuendo il costo di produzione dei compiti automatizzati, l’economia si espande e ciò provoca un aumento della domanda di lavoro nei compiti non automatizzati. E penso anche all’effetto creazione di nuovi compiti e nuove attività in cui il lavoro gode di un vantaggio comparato rispetto alle macchine.

Ma perché è così difficile avere ragione, oggi, della disoccupazione e soprattutto della inoccupazione?

Ritengo che la disoccupazione e la cattiva occupazione di oggi siano la conseguenza di una organizzazione sociale incapace di articolarsi nel modo più adatto a valorizzare le risorse umane a disposizione. È un fatto che le tecnologie della quarta rivoluzione industriale liberano tempo sociale dal processo produttivo, un tempo che l’attuale assetto istituzionale del lavoro trasforma in disoccupazione oppure in precarietà sistemica. Vale a dire che l’aumento, a livello del sistema economico, della disponibilità di tempo continua ad essere utilizzato per la produzione di merci o di servizi di cui potremmo tranquillamente fare a meno e che dobbiamo poi consumare. Il risultato di questo stato di cose è che troppi sforzi ideativi vengono indirizzati su tentativi di creare nuove occasioni di lavoro effimere o precarie anziché essere impiegati per riprogettare la vita di una società postindustriale capace di lasciare alle nuove macchine le mansioni ripetitive e quindi potenzialmente capace di utilizzare il tempo così liberato per impieghi che allarghino gli spazi di libertà dei cittadini. Una precisazione è opportuna. La disoccupazione dice di una carenza di posti di lavoro, cioè di impieghi, sul mercato del lavoro. Ma vi sono parecchie altre offerte e domande di lavoro che non transitano per il mercato del lavoro. Si pensi al lavoro di cura dentro e fuori della famiglia; al lavoro che entra nella produzione di servizi alla persona; al lavoro erogato all’interno delle organizzazioni di terzo settore e simili. Si tratta di attività lavorative che la società avvalora, senza però che esse siano sottoposte alle regole del mercato del lavoro. È dunque necessario tenere distinta la nozione di impiego o posto di lavoro dalla nozione, assai più ampia, di attività lavorativa. E il confine tra la sfera dell’impiego e quella delle attività lavorative è oggi sostanzialmente lo stesso di quello in essere durante la lunga fase di sviluppo della società fordista. È questa la vera rigidità che occorre superare, e in fretta, se si vuole avviare a soluzione il problema qui in questione. Pensare di dare oggi un lavoro a tutti sotto forma di impiego, cioè di posto di lavoro salariato, sarebbe pura utopia o, peggio, pericolosa menzogna. Infatti, mentre nella società industriale, l’espansione dei consumi e la lentezza del progresso tecnico permettevano al mercato del lavoro sia di assorbire la nuova manodopera sia di riassorbire la vecchia manodopera resa esuberante, dall’utilizzo delle “macchine”, nella società postindustriale questi margini di intervento sono praticamente negati. Ecco perché occorre intervenire sul confine di cui si è appena detto.

Ma delle politiche di riduzione del costo del lavoro unitamente a politiche di sostegno e di rilancio della domanda aggregata potrebbero accrescere la produzione più rapidamente dell’aumento della produttività e contribuire così alla riduzione della disoccupazione?

Certamente, ma un tale risultato positivo avrebbe un prezzo. Ovvero quello di accettare come naturale una nuova classe sociale, quella dei working poors, ovvero dei poveri che lavorano, soggetti cioè che percepiscono un reddito da lavoro, ma questo si colloca al di sotto della soglia di decenza. Oggi sappiamo che è la competitività l’orizzonte sotto il quale impostare qualsiasi discorso volto a creare posti di lavoro. Solamente imprese competitive possono nascere e crescere e così facendo possono creare impiego: i posti di lavoro aumentano con l’aumento dei margini di competitività delle imprese. È questa la nuova regola aurea dell’occupazione. Si tratta di una novità di non poco conto rispetto al più recente passato. E il senso di tutto questo è chiaro: è il lavoro manuale o ripetitivo e quello che non richiede scambio con l’utenza che andrà ad essere sempre più sostituito dalle nuove macchine; mentre si salverà quel lavoro manuale o intellettuale che non può essere fungibile, come accade nei servizi alle persone, oppure che postula particolari strutture di relazione con la controparte. In buona sostanza, knowledge economy e creator economy continueranno a rafforzarsi a spese dei vecchi colletti blu e bianchi.

Ma perché ci sono resistenze così forti a prendere atto che l’attuale disoccupazione è essenzialmente legata al mutamento profondo intervenuto nell’organizzazione della produzione? 

La risposta che trovo più convincente è che ancora diffusa tra gli esperti è l’idea che si possa intervenire con successo sulla disoccupazione operando con rimedi tradizionali. Ma non è così. Occorre allora mutare lo sguardo sulla realtà. Il fatto è che, rimanendo all’interno dello schema concettuale che identifica la piena occupazione con il pieno impiego, il raggiungimento di quest’ultimo obiettivo entra in rotta di collisione con il raggiungimento di obiettivi altrettanto leciti e importanti, quali una crescita ecologicamente sostenibile, o un modello di consumo che non generi alienazione distorcendo le preferenze individuali, o una società non stratificata e tendenzialmente includente. Per dirla in altri termini, il limite invalicabile di tutte le proposte, anche ingegnose, volte ad alleviare la piaga della disoccupazione è quello di generare, nelle nostre società, pericolosi trade-offs: per distribuire lavoro a tutti si va a giustificare un modello di consumo neoconsumista, oppure si legittimano le nuove di povertà, oppure ancora si restringono gli spazi di libertà dei cittadini. Tutto ciò è inaccettabile sotto il profilo sia etico sia politico. Quel che occorre dire, in tutti i modi immaginabili e possibili, è che il fare impresa è la via maestra per creare lavoro. Perché il lavoro va creato. Non ci si può accontentare di ridistribuire quello che già c’è.

In una regione come l’Emilia-Romagna che dinamiche si stanno registrando?

È appena uscito un libro da me curato che fa il punto su questo. Si intitola Creazione di lavoro nella stagione della quarta rivoluzione industriale. Il caso dell’Emilia-Romagna (Il Mulino, 2018). È il frutto dell’impegno congiunto di un gruppo di studiosi che, riuniti dall’Istituto Veritatis Splendor di Bologna, hanno inteso dedicare la propria attenzione alla grande questione del lavoro. L’occasione che ha propiziato questa ricerca è stata il varo, nel giugno 2017, del progetto «Insieme per il lavoro» che ha visto il coinvolgimento attivo della Chiesa di Bologna, del Comune di Bologna, delle associazioni imprenditoriali, del sindacato e di talune espressioni del Terzo settore. È questo un tentativo ben riuscito che dimostra come sia concretamente possibile, quando lo si vuole, dare ali a quel principio di sussidiarietà circolare, cui fa esplicito riferimento l’art. 118 della nostra Costituzione. L’Emilia-Romagna è una delle regioni più ricche d’Europa. E alla ricchezza in termini economici si aggiunge una ricchezza intellettuale. Qui, forse più che altrove, si è compreso che l’impresa che crea lavoro non è solo quella privata di tipo capitalistico ma anche l’impresa sociale, il cui principio regolativo è la reciprocità. Ciò è possibile ad una fondamentale condizione: che si realizzi il travaso della domanda verso categorie di beni come quelli comuni e quelli relazionali. Come sempre più spesso si sente affermare, alla base del nuovo modello di crescita c’è una specifica domanda di qualità della vita. Ma la domanda di qualità va ben al di là di una mera domanda di beni manifatturieri o agricoli. È piuttosto una domanda di attenzione, di cura, di servizio, di partecipazione, in buona sostanza, di relazionalità. In altri termini, la qualità cui si fa riferimento non è tanto quella dei prodotti di consumo, quanto piuttosto la qualità delle relazioni umane. Recuperare le tradizioni ideali e i principi fondativi della matrice culturale del territorio emiliano-romagnolo è allora la via per vincere la sfida: dalla laboriosità allo spirito di sacrificio, dalla passione per l’etica dell’agire alla coesione sociale, dalla creatività alla solidarietà vissuta e non solamente declamata. Tenendo sempre a mente che, come ricordava Gustav Mahler, la tradizione è la salvaguardia del fuoco, non la conservazione delle ceneri.

Intervista a Stefano Zamagni, Lavoro e quarta rivoluzione industriale:alcune riflessioni, in “Clionet. Per un senso del tempo e dei luoghi”, 3 (2019) []. 

Fonte: Lavoro e quarta rivoluzione industriale: alcune riflessioni

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